Osteonecrosi


L’osteonecrosi, anche definibile come necrosi ossea, o anche osteonecrosi asettica, è la morte dei tessuti ossei. Essa è, in sintesi:
  • spesso bilaterale;
  • la testa del femore è la porzione più colpita (75% dei casi), seguita dall’omero (2-3% dei casi);
  • si manifesta maggiormente tra i 40 e i 50 anni;
  • porta a dolore, anche molto forte, e problemi nei movimenti;
  • il ritardo diagnostico inficia i trattamenti. La RM – Risonanza Magnetica - è l’indagine strumentale per eccellenza;
  • il trattamento dell’osteonecrosi comprende approcci conservativi e chirurgici;
  • esiste un approccio chirurgico mininvasivo che permette di preservare il proprio osso e di avere risultati importanti a bassa invasività;
  • esiste una chirurgia biologica o rigenerativa che viene eseguita a completamento della chirurgia mininvasiva.

In patologia con questo termine si indica la morte di una cellula o di un gruppo di cellule (tessuti), in seguito a cause non naturali. La necrosi dell’osso riguarda quindi le cellule del tessuto osseo e deriva dalla mancata irrorazione sanguigna di quel distretto. É una patologia che dipende da più fattori, ovvero multifattoriale, e colpisce in prevalenza gli uomini tra i 40 e 50 anni. Nel 50% dei casi è bilaterale. Le cause dell’osso in necrosi possono essere traumatiche o atraumatiche. Nel primo caso si parla di danni fisici ai vasi sanguigni dell’osso derivanti, appunto, da urti ad alta energia o di compressione. Nel caso di necrosi ossea atraumatica le cause principali sono da ricondurre alle terapie con corticosteroidi o all'abuso di alcool, che da sole ricoprono il 70% delle cause atraumatiche. Altri fattori possono essere l'embolismo, le coagulopatie, le emoglobinopatie e le malattie da decompressione.

In molti casi potrebbe essere identificata una familiarità: specifiche mutazioni genetiche si ritrovano in gran parte dei casi. Coagulopatie subcliniche sono presenti in circa il 70% dei pazienti con osteonecrosi

Esistono diversi sistemi di classificazione per definire la stadiazione dell’osso in necrosi.

La più comune è quella di Arlet-Ficat che è basata sul grado di collasso dell’articolazione (4 stadi). La diagnosi resta comunque difficile da eseguire e necessita di un elevato indice di sospetto. L’accertamento compiuto mediante radiografie, in particolare nella fase iniziale che è la più importante per avere successo con le terapie, può ingannare. La Risonanza Magnetica Nucleare (RMN) è l'unico esame realmente affidabile per fare diagnosi.

L'osteonecrosi inizialmente procura dolore che, a seconda del distretto colpito, è aggravato dal carico e dalla deambulazione.

Con il progredire della patologia possono verificarsi fratture locali fino al collasso dell’osso nei casi più gravi, con dolorabilità elevata anche a riposo.

I pazienti possono avere sintomi da più di un anno prima che la necrosi ossea venga diagnosticata. Tipicamente riferiscono, associato al dolore crescente, una difficoltà a compiere gesti “normali” fino a poco prima (salire o scendere le scale, camminare, correre). Tale difficoltà può giungere al punto di costringere l’ammalato a impiegare ausili per camminare, fino a relegarlo a letto o sulla sedia a rotelle.

Le ossa più colpite dall'osteonecrosi sono quelle lunghe del corpo, ovvero il femore (osso della coscia) e l'omero (osso del braccio). A fratturarsi, ed eventualmente a collassare, sono le porzioni terminali delle ossa lunghe (epifisi). Le articolazioni più soggette sono le ginocchia, le spalle, le caviglie, il polso, l'anca e la mandibola.

Nel 75% dei casi è colpita da necrosi la testa del femore.
 

Sintomi


I sintomi sono simili a quelli dell’artrosi, ma hanno un decorso molto più veloce e appaiono all’improvviso senza causa apparente. Per chi soffre di necrosi della testa del femore il dolore iniziale è intermittente e aggravato dal carico e dalla deambulazione. Rapidamente si manifesta anche a riposo e a livello funzionale impedisce le normali attività, come il camminare, portando anche alla necessità di ausili come deambulatore.
La diagnosi di necrosi dell’anca si effettua attraverso:
  • radiografie tradizionali, spesso falsamente negative;
  • risonanza magnetica nucleare – permette diagnosi precoce e una stadiazione della malattia più precisa (esame da eseguire ai primi sintomi).
 

Trattamento


Esistono diverse strategie terapeutiche con efficacia differente che si distinguono in approcci conservativi o chirurgici. L’aspetto più importante della cura è la tempistica: un trattamento effettuato nei primi stadi ha infatti molte più probabilità di essere efficace rispetto a interventi più tardivi.

 

Terapie conservative


Le strategie terapeutiche conservative sono proposte per i pazienti con la necrosi del femore o con quella dell’omero (vedi paragrafo dedicato) (ovvero le due sedi principali di osteonecrosi).
Nel caso di osteonecrosi dell’anca i trattamenti conservativi proposti sono vari e diversi e possono riuscire a rallentare la progressione della malattia, ma solo se proposti al comparire dei sintomi. Includono, tra gli altri, terapia iperbarica, campi magnetici, anticoagulanti, vasodilatatori, bifosfonati e statine.
 

Trattamento chirurgico


Per quanto riguarda il trattamento chirurgico, esistono diversi approcci. Caratteristiche in comune nella maggior parte delle terapie chirurgiche correntemente proposte sono l’alta invasività, l’elevato impegno di risorse economiche, peraltro spesso non bilanciate da un’efficacia adeguata e condivisa.
Tra i trattamenti chirurgici più utilizzati:
  • Trapianto osseo vascolarizzato e non: il trattamento consiste nel trapiantare osso sano all’interno dell’osso colpito. Risulta estremamente invasivo e con efficacia dubbia.
  • Protesizzazione: il trattamento consiste nella sostituzione dell’articolazione con materiale artificiale. È un approccio irreversibile, invasivo, costoso, rappresenta l’unica possibilità nei casi più avanzati di distruzione/collasso dell’articolazione. (il 7-8% delel protesi fatte sono esiti di una osteonecrosi).
  • Core-decompression: il trattamento consiste nel creare un canale nell’osso tramite apposite frese al fine di diminuire la pressione al suo interno agevolandone, tra l’altro, l’irrorazione sanguigna. Economico, poco invasivo, spesso efficace nei casi lievi/intermedi con un buon profilo, fino anche a quelli discretamente avanzati (stadio III). Di contro però provoca indebolimento dell’osso.
  • Trattamento biologico: applicazione locale di fattori di crescita/cellule mesenchimali. Molti studi dimostrano che questo approccio influenza la prognosi.

La terapia biologica o rigenerativa (mesenchimali staminali)
La chirurgia biologica o rigenerativa viene eseguita a completamento e integrazione della chirurgia mini invasiva. Questa tecnica prevede l’attuazione di procedure di rigenerazione dei tessuti del corpo umano mediante l’introduzione di cellule mesenchimali staminali prelevate dal paziente stesso, quindi tessuto autologo che esclude qualsiasi rischio di rigetto.

Queste cellule, in grado di autorigenerarsi e differenziarsi nei diversi tessuti - muscoli, tessuto adiposo, tessuto osseo, legamenti, tendini, cartilagine - si classificano fra le prescelte per la chirurgia ortopedica.
Il trattamento chirurgico biologico o rigenerativo vede quindi l’applicazione locale di fattori di crescita/cellule staminali mesenchimali introdotte attraverso la vite forata e canulata della metodica mininvasiva.

Le principali caratteristiche delle cellule mesenchimali sono:
  • Preservare l’equilibrio interno all’organismo e nel rimpiazzare le cellule danneggiate o morte a causa di diversi fattori quali l’invecchiamento, la presenza di traumi o di malattie.
  • Presenziare nei tessuti di un organismo adulto,
  • In grado di autorigenerarsi e differenziarsi per tessuti specifica desiderata a scopo terapeutico
  • Vengono ottenute con prelievo di tessuti come il midollo osseo, il sangue periferico, cordone ombelicale, tessuto adiposo e il derma.
  • In grado di evitare il problema del rigetto.
Ad oggi l’impiego delle cellule staminali è riservato per la chirurgia ortopedica al trattamento di:
  • Pseudoartrosi e ritardo di consolidazione ossea,
  • Lesioni cartilaginee e danno dermo epidermico e degli annessi cutanei,
  • Osteonecrosi.
 

Vantaggi

 

L’applicazione di questa procedura chirurgica attualmente risulta essere una delle più innovative. I risultati appaiono sia dal punto di vista morfo strutturale che dal punto di vista clinico, superiori a quelli ottenuti dai trattamenti chirurgici tradizionali (trapianto osseo vascolarizzato e protesizzazione). Evidente è il vantaggio dell’unico tempo chirurgico ottenuto grazie all’integrazione della mini invasiva con la rigenerazione, utilizzando infatti la vite forata viene introdotto il composto biologico nei tessuti danneggiati del malato.


Il trattamento chirurgico avviene con queste caratteristiche:
  • Procedura in anestesia spinale
  • Una sola notte di degenza
  • Prelievo di cellule staminali mesenchimali dal midollo osseo del paziente tramite una microincisione, le cellule vengono poi centrifugate e preparate,
  • Avviene poi l’infiltrazione del prodotto, durante questo processo le cellule iniziano a sviluppare il loro effetto antinfiammatorio, anti degenerativo e di stimolazione della tessuto patologico.
Immediatamente dopo la procedura il paziente può camminare senza l’ausilio di stampelle, non ha bisogno
di fisioterapia o degenza, dopo mezz’ora può tornare a casa.
 

Chirurgia mini-invasiva


La metodica mininvasiva SOIB è stata proposta in questi ultimi anni come approccio a bassa invasività che mira a riparare e a rigenerare l’osso in necrosi senza necessità di ricorrere a interventi massivi. Una singola vite forata e canulata di 8 mm viene inserita nella parte d’osso danneggiato attraverso una piccola incisione, annullando le perdite di sangue.

Tramite i suoi fori è possibile introdurre quindi sostanze che inducono la rigenerazione dell’osso, senza eventualmente impedire ulteriori approcci chirurgici più invasivi in seguito, se necessari.
Con questa tecnicia il paziente con necrosi della testa del femore può essere in piedi il giorno stesso dell’intervento con necessità limitata, se non nulla, delle stampelle.


I vantaggi del metodo

  • preserva l'osso;
  • è un approccio mininvasivo;
  • quasi annulla le perdite di sangue;
  • importante diminuzione della sintomatologia dolorosa nell’immediato post operatorio;
  • non pregiudica interventi successivi (protesi);
  • la ripresa funzionale è precoce, spesso senza bisogno di ausili (stampelle).

Quando a non ricevere più una quota sufficiente di irrorazione sanguigna è il ginocchio si parla di osteonecrosi condilo femorale mediale del ginocchio.  I motivi alla base della necrosi ossea del ginocchio non sono ancora perfettamente noti. Si distingue tra forme primarie e secondarie.

 

Primarie


La necrosi del ginocchio si verifica quado la patologia insorge senza che sia presente una causa nota. Alcuni fattori tuttavia sono considerati di rischio, tra cui l’abuso di alcol, il sovrappeso, l’iperuricemia, le dislipidemie (colesterolo e trigliceridi alti) e il diabete mellito.
 

Secondarie


In questo caso la necrosi al ginocchio insorge a causa di una condizione morbosa preesistente (lesione del ginocchio, terapie cortisoniche di lunga durata, radioterapia locale, embolia gassosa).

L'osteonecrosi può anche colpire una o entrambe le ossa mascellari (mandibola e mascella). Viene definita osteonecrosi della mandibola la patologia che porta all’esposizione dell’osso nella regione maxillo-facciale che non guarisce entro 8 settimane dal suo riscontro. Le principali complicanze sono di tipo infettivo, con ulcerazioni della mucosa orale.
Si ritiene che l’impiego di bifosfonati sia tra le cause della necrosi mandibolare, in particolare nei pazienti metastatici che fanno un uso massivo di questi farmaci a dosi elevate (vedi sezione Osteonecrosi da bifosfonati). Anche l’assunzione di denosumab e di agenti anti angiogenetici aumenta il rischio d’insorgenza di questa patologia.
 

Osteonescrosi mandibolare: sintomi


I pazienti manifestano dolore durante la masticazione e la deglutizione, ascessi orali e cutanei, pus e parestesie.
 

Osteonecrosi mandibolare: terapia


La maggioranza dei pazienti colpiti da osteonescrosi della mandobola viene indirizzata a un trattamento conservativo, ovvero scrupolosa igiene orale, con eliminazione di qualsiasi patologia dentale o periodontale attiva e contestuale assunzione di antibiotico per via locale o sistemica. Si prevede per l’osteonecrosi mandibolare il trattamento chirurgico solo quando l’igiene orale non riesce a impedire la progressione della patologia e il dolore non riesce a essere controllato farmacologicamente. In questi casi si procede con la resezione estesa delle porzioni ossee interessate da necrosi della mandibola, fino al punto in cui emerge osso sano. Anche l’applicazione locale del fattore di crescita PDGF e la terapia iperbarica in combinazione alla chirurgia hanno dimostrato di essere efficaci nel trattamento della necrosi ossea mandibolare.
 

Necrosi ossea dentale


La necrosi dentale occorre come fase terminale della sequenza delle diverse patologie che colpiscono la polpa dentaria. Può essere conseguenza diretta della pulpite irreversibile (infiammazione della polpa dentaria), oppure può derivare da un mancato apporto di sangue al tessuto che compone il dente (in seguito a traumi o gravi lesioni). Non sempre la necrosi ossea dentale ha sintomi evidenti: a volte si riporta dolore, sensazione del dente rialzato, gonfiore, ma la patologia può anche essere asintomatica.

I bifosfonati sono una classe di farmaci impiegati, a dosi diverse, nel trattamento dell’osteoporosi o nel trattamento di alcune forme tumorali (lesioni ossee metastatiche, localizzazioni ossee del mieloma, ipercalcemia secondaria a neoplasie maligne). Questi farmaci agiscono inibendo l’azione osteoclastica. Le recenti evidenze scientifiche suggeriscono un ruolo dei bifosfonati nell’osteonecrosi, in particolare nei pazienti che eseguono la terapia endovenosa ad alte dosi. La sede maggiormente colpita da necrosi da bifosfonati è la mandibola, seguita dalla mascella. Secondo uno studio apparso sul New England Journal of Medicine nel 2005 l’incidenza di osteonecrosi in pazienti che assumono bifosfonati varia dall’1 al 10%, ed è consistente dopo 12 mesi di terapia.

Per quanto riguarda la necrosi della testa dell’omero l’obiettivo principale è evitare la capsulite adesiva da non uso, per cui i trattamenti includono fisioterapia, terapia farmacologica e riposo. Per loro stessa natura questi trattamenti non sono in grado di influire sulle progressive alterazioni anatomiche della testa omerale, pur garantendo qualche risultato, anche se mediocre, se applicati nelle fasi precoci della malattia. Per quanto riguarda il trattamento chirurgico le opzioni proposte per la necrosi della testa dell’omero sono simili a quelle elencate anche per il femore. Fa eccezione l’artroscopia di spalla che sembra avere un ruolo nel miglioramento dei sintomi, senza tuttavia impattare sul decorso della malattia.

La necrosi del piede può coinvolgere l’astragalo, anche detto talo, un osso breve del piede che si trova nel tarso e si articola tra calcagno, tibia e perone e il navicolare. È un evento raro che in genere si manifesta come complicanza della frattura dell’astragalo, che già di per sé è abbastanza rara (rappresenta il 2% delle fratture del piede). L’osteonecrosi dell’astragalo deriva anche da cause atraumatiche, come per gli altri distretti corporei interessati da necrosi ossea.
Le informazioni contenute nel Sito, seppur validate dai nostri medici, non intendono sostituire il rapporto diretto medico-paziente o la visita specialistica.

Le Strutture Sanitarie che accertano o curano questa patologia

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